Il Piss Midai

È un luogo che ha qualcosa di magico… dove il ruscello forma una cascata che finisce in un profondo pozzo. È un luogo molto caro alle masche… Si narra che fosse il loro nascondiglio… dove compivano i loro sortilegi…

 

Scriveva Michelangelo Perino Bert:

 

Sopra Margone, vicino

le Tane di Vajat,

l’acqua del lago

cade

urlando come nell’inferno

tutta bianca ed arrabbiata

senza sole.

Verso la mezzanotte

le masche

dalle rive del Lago Nero

si buttano giù

Nel Piss ‘d Midaj

giù proprio a bagno.

E nella schiuma fanno poi

ogni pasticcio.

 

(dal libro Steile Alpine, di Michelangelo Perino Bert)

Vi sono diverse storie che narrano di masche al Piss ‘d Midaj…

La storia di Giovanni da Parigi

 

Racconta una leggenda che il diavolo, venendo un giorno in visita alle masche al Piss Midai, lasciò la sua impronta sulle rocce nere. A pochi metri, in una catapecchia, abitava un certo Giovanni da Parigi. Nessuno sapeva davvero chi fosse. Quel che è certo è che era amico delle masche. Quando nei pressi della sua casupola passavano dei viandanti francesi, Giovanni, senza far parola con nessuno, prima li derubava, poi rideva loro in faccia e infine li precipitava nel Piss Midai. La stessa sorte stava per toccare ad un ricco cavaliere francese arrivato attraverso il Colle dell’Autaret. Giovanni lo aggredì per rubargli il denaro contenuto in una borsa. Ma il cavaliere, svelto, gettò le monete in una pietraia dicendo: <<Né io né il mio cavallo, né oro né argento>>. Le monete sparirono tra le pietre. Subito dopo, in groppa al cavallo, egli si slanciò verso il Piss Midai. L’animale arrivò sull’orlo del precipizio, si impennò, arretrò di qualche passo, impaurito dalle misteriose presenze, poi di colpo si gettò nel pozzo, trascinando con sé il suo padrone.

 

Subito dopo arrivarono in processione, saltando e ballando, le masche e baciarono sul naso il loro amico Giovanni.

 

L’episodio fu però osservato da qualcuno, che sparse la voce. Tutti i cavalieri che dovevano passare in quel luogo erano perciò impauriti. Nessuno riusciva però ad evitare la morte.

 

Finalmente un giorno qualcuno pensò ad uno stratagemma per ingannare il bandito: fece ferrare gli zoccoli del cavallo al contrario, così non era più possibile capire la giusta direzione. Giovanni cercava di seguire la direzione delle orme, ma non riuscì più a derubare nessuno, finché, ormai vecchio, morì.

 

Nessuno pianse la sua dipartita e nessuno si disperò, anzi, il dolore che egli aveva procurato agli altri era stato talmente intenso che si decise di appendere il suo corpo alla trave di una stalla, con un lume ad olio acceso vicino alla bocca. Ciò fu fatto, mentre intorno tutti ballavano contenti.

Il pozzo del Piss Midai

 

Verso la fine del XV secolo viveva a Susa una bellissima fanciulla di nome Claudina.

 

Di lei era innamorato Arnolfo Calcaterra, gran cacciatore di orsi e di camosci. Sovente egli donava all’amata le sue prede e le raccontava i pericoli affrontati durante le battute di caccia. Una volta narrò che mentre inseguiva una preda era

 

passato nei pressi della rupe che sovrasta Il Pozzo del Piss Midai. I suoi cani, che prima latravano e correvano dietro alla selvaggina, improvvisamente si immobilizzarono e cominciarono a guaire dolorosamente, come se sentissero che stava per accadere qualche cosa di terribile. Arnolfo fu terrorizzato e mentre raccontava il suo volto mostrava ancora i segni di quel terrore. Per fortuna la vicinanza di Claudina consentiva di abbandonare quei pensieri così tristi. Le moine e le carezze della ragazza avevano infatti sempre consentito ad Arnolfo di ritrovare la serenità.

 

Ma non quella volta: dopo quel racconto Claudina, che fino ad allora era stata dolce ed innamorata, cambiò atteggiamento e divenne distratta e taciturna. Arnolfo non sapeva spiegarsi un simile cambiamento: avrebbe preferito la morte a quell’incertezza. Cominciò a tempestare la ragazza di domande, ma ella taceva.

 

Finalmente un giorno la fanciulla, viste le insistenze di Arnolfo, confessò di volere da lui una prova di coraggio oltre ogni limite: avrebbe dovuto trascorrere un’intera notte, da solo, presso l’oscuro e misterioso Piss Midai. Soltanto allora ella sarebbe stata certa che egli l’amava.

 

Arnolfo, udita la richiesta, impallidì. Le sue mani, in genere forti e ferme, cominciarono a tremare. Sulla sua fronte si formano alcune gocce di sudore. Ma non si tirò indietro: avrebbe affrontato quella prova estrema.

 

Il giovane partì dunque da Susa e, valicato il Colle della Croce di Ferro, giunse nei pressi del Piss Midai verso il calar del sole. L’acqua nerastra precipitava con fragore in quel pozzo che sembrava senza fondo e le rocce circostanti facevano rimbalzare il rumore, amplificandolo.

 

Il primo impulso fu di tornare indietro, ma il pensiero di Claudina lo fermò.

 

Sfinito dal lungo viaggio, si sdraiò ai piedi di un albero con la sola compagnia del cane e delle sue armi.

 

Subito dopo scese la notte, buia e senza stelle. Il cuore di Arnolfo cominciò a battere affannosamente. Il rumore della cascata era sempre più spaventoso. Si era anche levato il vento. Tra le foglie gli pareva di scorgere un nemico che si avvicinava. Ad un certo punto gli sembrò che un bianco fantasma fuggisse fra gli alberi. All’improvviso, un rumore di pietre smosse, di animali in movimento e un gemito doloroso trascinarono d’impulso il cane verso il pozzo: l’acqua del Piss Midai lo inghittì. E Arnolfo sentì soltanto il rumore del tonfo.

 

Senza più la compagnia del cane, Arnolfo incominciò a tremare. Prima diventò di ghiaccio, poi di fuoco, mentre da una rupe vide sorgere una bianca testa d’uomo. Aveva due occhi gialli e fosforescenti che lo fissavano. Cercò di allontanare lo sguardo, di chiudere le palpebre, di nascondersi, ma quell’immagine lo perseguitava. E tutt’intorno voci infernali gridavano a più non posso.

 

Sparò un colpo col suo schioppo per fare tacere quelle voci. Nell’attimo di silenzio che ne seguì l’eco rimbalzò di rupe in rupe ma, prima che fosse cessata, il concerto di risa diaboliche era ripreso.

 

Poi improvvisamente le rocce cominciarono a correre rapidamente, e dietro a loro i boschi, e ancora la gente, trascinata da cavalli che però non lasciavano orma alcuna. Tutti andavano a finire nel Piss Midai.

 

L’acqua ribolliva e si alzava agitata fino a toccare il margine dei neri dirupi. La montagna tremava. Poi le onde si calmarono e sulla superficie rimasero delle bolle che scoppiando emettevano una luce verdognola, da cui usciva uno spiritello con un solo occhio infuocato e con una forca in mano.

 

Erano questi spiriti per metà neri e per metà rossi e si azzuffavano. Quando si scontravano producevano un rumore di ampolle di vetro infranto. E anch’essi, come un’ampolla, si dividevano in mille pezzi, andando ad infrangersi sulle rupi. I diversi frammenti prima diventavano rosso fuoco, poi si tramutavano in gatte nere, dagli occhi come carboni accesi, che miagolavano paurosamente e si dileguavano tra alberi e rocce.

 

Arnolfo era talmente terrorizzato che non usava più muoversi. Ad un tratto si sentì sollevare in aria. Dopo un breve viaggio venne deposto sulle rive del Lago Nero. Qui c’erano almeno trenta masche, ognuna seduta su un teschio e con una bacchetta di ebano in mano. Un’altra masca gettava l’amo nel lago e pescava teschi e altri resti umani. Ad un certo punto tutte si precipitarono intorno a lui e insieme si immersero nel lago.

 

Arnolfo credeva di annegare, invece fu trasportato sotto un ghiacciaio dove gli posero tra le dita un ago e gli dissero che sarebbe uscito solo quando con esso fosse riuscito a fare un’apertura nel ghiaccio.

 

Col cuore in tumulto per la nuova disgrazia, quando ormai credeva di essere senza speranza, vide in lontananza una scala di ghiaccio che saliva, saliva… la percorse d’un fiato ed uscì all’aperto. Finalmente! Ma dov’era capitato?

 

Si trovava sospeso su un albero di tiglio, in cima alla Torre d’Ovarda. L’appiglio era così precario che ben presto precipitò nel vuoto, ritrovandosi di nuovo al Piss Midai, dove risentì le risa diaboliche e dove mani ignote lo spingevano verso l’alto e verso il basso.

 

Cadde finalmente su un tappeto di erba verdissima e di mammole alpine nei pressi della Torre d’Ovarda, luogo ben noto come covo di streghe. Non poteva muovere neppure un dito. Da una profonda spelonca vide uscire una processione di fantasmi, larve, folletti e spiriti maligni di ogni specie. Seguivano maliarde, fattucchiere, negromanti, maghi, uomini impiccati, decapitati, impallinati.

 

La processione girò tre volte intorno ad Arnolfo, poi rientrò nella spelonca. Ma subito ne uscì il cadavere di una giovane donna sorretta da due streghe: si avvicinò al cacciatore e con la gelida mano lo toccò. Arnolfo svenne.

 

Quando il sole era sorto da pochi istanti, alcuni pastori, passando con il loro gregge nei pressi del Piss Midai, video un uomo proteso verso l’abisso con accanto il suo schioppo. Arnolfo! Pareva morto ma, esaminatolo meglio, si accorsero che respirava. Lo portarono in una muanda e lo curarono con erbe aromatiche cotte nel vino. A causa della febbre altissima Arnolfo delirava e parlava di streghe e di demoni.

 

Intanto Claudina si era pentita di aver indotto Arnolfo a quella terribile prova. La notte non aveva dormito e l’indomani si aspettava, di ora in ora, di vederlo tornare per potergli chiedere perdono.

 

Accompagnata da un servitore e da un medico si recò nella valle di Malciaussia e ritrovò Arnoldo ancora delirante. Ogni volta che lei gli si avvicinava, il giovane urlava: <<la morta, la morta…!>>.

 

Dopo otto giorni di delirio finalmente Arnolfo riconobbe Claudina. Si sposarono quasi subito nella cappella dell’Andriera e per molti anni l’uomo non parlò della notte infernale.

 

Finalmente un giorno, interrogato dal medico che l’aveva guarito, tremando raccontò tutto. Ma questi sorridendo lo tranquillizzò: <<Tu hai delirato>>.

Vi sono altre storie cha narrano di masche ad Usseglio….

La rocca delle streghe

 

Un contadino di nome Pasquale Bertoldo un giorno d’estate tornava ad Usseglio dalla Francia, dove era emigrato per lavoro.

 

Stanco ed accaldato, si fermò in un’osteria per rifocillarsi. Poi bussò ad una casa vicina per chiedere ospitalità finché il sole non fosse tramontato e la frescura della notte non avesse facilitato il cammino.

 

Nessuno rispose, ma la porta si aprì con un sinistro cigolio ed egli vide nella penombra, seduta ad un tavolo di pietra, una bruttissima vecchia, con i capelli arruffati, il naso adunco e uno scialle nero buttato sulle spalle.

 

Sembrava lo aspettasse. E infatti con voce sgradevole lo chiamò: <<Entra nella mia casa, voglio tenerti con me per avere compagnia e aiuto per la vecchiaia>>.

 

Pasquale, spaventato, cercò subito di andarsene dicendo: <<Non posso fermarmi, a casa ho moglie e figlio che mi aspettano con ansia>>.

 

Ma la vecchia, estratto dalla lurida sottana uno specchio, replicò: <<Vedo il bambino ammalato e tua moglie che lo culla cantandogli la ninna nanna. Il piccolo mi piace e tua moglie è una brava mamma. Mi prenderò tuo figlio e ti darò il mio. Quando vorrai, ci rivedremo ad Usseglio alla Rocca delle streghe>>.

 

Detto ciò, scomparve.

 

L’uomo, preoccupato, si allontanò immediatamente da quel luogo maledetto. Dopo alcune ore di cammino giunse a casa, dove trovò la moglie in lacrime che gli raccontò la terribile disgrazia: il figlio era scomparso dalla culla e al suo posto c’era un mostriciattolo peloso e grinzoso che urlava. Sembrava che a quel mostriciattolo crescessero continuamente le unghie.

 

Le vicine di casa sussurravano: << E’ figlio del demonio, buttatelo nel canale!>>.

 

Anche il cappellano del paese, pur essendo un sant’uomo, non sapeva quale consiglio dare, tranne quello di non fare dispetti alla strega, che era certamente vendicativa e senza scrupoli.

 

Pasquale, disperato, partì per la Rocca delle streghe, dove la vecchia gli aveva dato appuntamento.

 

Capitò nel bel mezzo di un’orgia: un grosso fuoco era acceso e su di esso bolliva un enorme paiolo pieno di pece. Intorno alla fiamma le streghe facevano danze indiavolate urlando e facendo gli sberleffi. Il rumore era assordante, perché la montagna vicina faceva rimbombare sulle rocce quegli urli demoniaci.

 

Bertoldo si nascose dietro ad un grosso tronco, pregando e sperando di riconoscere la strega che gli aveva rubato il figlio.

 

La sarabanda attorno al fuoco durò fino a mezzanotte.

 

Ai primi rintocchi di un campanile lontano, giunse la strega in groppa ad un liocorno. Stretto al petto aveva il bambino di Bertoldo. Era la regina e tutte le altre vecchie le si fecero intorno, pensando che il bimbetto fosse la tenera la preda che doveva essere rosolata sul fuoco. Ma la strega, con un insospettato senso materno, le allontanò ed entrò nel paiolo di pece bollente tenendo ben sollevato il piccolo perché non si scottasse.

 

Il padre a tale vista non resistette più: cercò di buttarsi verso il figlio, ma i suoi piedi erano incollati al suolo. Angosciato e terrorizzato, svenne. Il mattino successivo, quando si riprese, tutto sembrava tranquillo e non vi era nessuna traccia dei fatti della terribile notte. Ma il giovane sapeva bene di non aver sognato.

 

Sotto una pioggia battente si diresse disperato verso casa, dove trovò la moglie in ansiosa attesa del suo ritorno. Non appena la donna si accorse che il marito era tornato senza il figlio ricominciò a piangere.

 

Uno dei saggi del paese consigliò: <<Buca con uno spillone il cuore del mostriciattolo. Le sue urla di dolore raggiungeranno la madre strega, che, intenerita, accetterà lo scambio>>.

 

La donna, a malincuore, perché non voleva far soffrire un innocente, anche se figlio di una strega, si tolse uno spillone dai capelli e tremando bucò il corpicino invocando il nome del proprio figlio. Il figlio della strega chiamò la madre con un urlo così straziante che tutti ne furono commossi.

 

Ma il maleficio era vinto: il figlio ritornò nella sua culla e il mostriciattolo dalla vecchia strega, che gridò:<<Io non ho fatto a tuo figlio ciò che tu hai fatto al mio!>>. Anche la strega, infatti, aveva un tenero cuore di mamma.

La nonna

 

Una nonna accudiva il proprio nipotino mentre i genitori erano al lavoro. Il padre, rincasando prima del solito, sentì pronunciare alla nonna delle strane parole, come in una nenia: <<Nonostante il bene che ti voglio, stanotte sì che ne vedrai delle belle>>.

 

Il genitore, insospettito, decise di vegliare e poté così vedere come dopo poco la mezzanotte apparisse un gatto nero, che con la zampa anteriore tentava di spegnere la fiammella del lume a petrolio.

 

L’uomo lo cacciò ripetutamente, ma la bestia non accennava ad andarsene.

 

Indispettito dalla situazione, prese il falcetto e non appena si ripresentò il gatto gli tranciò di netto una zampa. Questi fuggì e non si ripresentò più.

 

Il mattino seguente, come ogni giorno, prima di recarsi al lavoro, i genitori aspettavano che la nonna si alzasse, per poterle consegnare il bambino. Ma la donna non si vedeva. Decisero allora di andare nella sua stanza per vedere come stava. Quando furono dinanzi al letto la sentirono lamentarsi dicendo: <<Cosa mi avete combinato stanotte!>>

 

Alla poverina mancava il braccio destro.

La Masca del Chiaberto

 

L’autunno stava per finire e già sulle montagne più alte era comparsa abbondante la prima neve.

 

Gli abitanti del Chiaberto, ogni sera, dopo gli ultimi lavori in campagna, si ritrovavano nelle stalle della frazione. Le mucche davano il giusto tepore all’ambiente e i fiochi lumi creavano luci ed ombre in movimento: l’atmosfera ideale per i racconti dei vecchi.

 

Per risparmiare petrolio si accendeva la lanterna in una sola stalla, ogni sera in un luogo diverso.

 

Una sera, nella stalla vicino al mulino erano in molti. In un angolo una vecchina filava come di consueto: non mancava mai a queste riunioni, anche se si addormentava quasi subito, il gran fazzoletto a fiori calato sugli occhi e la testa appoggiata alla rocca.

 

Quando era ora di rientrare, puntualissima si svegliava ed usciva in strada con gli altri.

 

Quella volta però l’incontro fu interrotto da un uomo che chiedeva aiuto per una mucca ammalata. Un contadino, esperto di queste situazioni, si alzò per dirigersi alla casa vicina; anche gli altri lo seguirono e in breve la stalla si svuotò.

 

Solo la vecchina nell’angolo continuava a dormire; neppure il rumore degli zoccoli sul pavimento e della porta che sbatteva avevano disturbato il suo sonno profondo. Una donna le diede un colpetto sulla spalla e la chiamò per nome, con l’intento di svegliarla. Ma con sua grande meraviglia i vestiti caddero a terra come stracci vuoti di ogni contenuto.

 

Alle urla terrorizzate della donna tutti rientrarono nella stalla, incuriositi ed anche impauriti. Ma uno degli anziani spiegò che probabilmente la vecchina era una masca che mentre sembrava addormentata, andava con le sue compagne nella Valle di Arnas o sulla Torre d’Ovarda, dove ogni notte le streghe si incontravano per i loro riti magici.

La scommessa

 

All’inizio dell’estate i pastori del Pianetto si trasferivano all’alpeggio nelle loro muande vicino a Benot. Sul sentiero che, dopo aver attraversato il ponte sulla Stura, si inerpica sul ripido fianco della montagna, era un continuo via vai di uomini e di animali. In autunno e in inverno, invece, il ritmo rallentava, e di sera le stalle erano un caldo rifugio per giovani e vecchi.

 

Una sera di tardo autunno di tanti anni fa alcuni amici si ritrovarono nella stalla di uno di loro. Si parlava di masche e di riti oscuri, quando un giovane, con atteggiamento sprezzante, si mise a ridere dei racconti fantastici e delle paure dei compagni.

 

<<Sono tutte cose che non esistono!>> disse con sufficienza agli amici, <<Siete come delle femminucce credulone e superstiziose!>>.

 

Poiché in paese si diceva che alla muanda dei Chiotetti vi fosse un covo di streghe, gli uomini replicarono quasi subito: <<Scommettiamo che non hai il coraggio di andare questa notte fino ai Chiotetti?>>.

 

<<Figuriamoci!>> insistette il giovane quasi offeso.

 

La posta in gioco era una somma di denaro e si concordò che il ragazzo, per dimostrare il suo coraggio, avrebbe dovuto entrare in una muanda, prendere uno sgabello e portarlo agli amici in attesa nella stalla.

 

La notte era buia e ogni tanto qualche folata di vento faceva fremere le foglie. Con un lume in mano il giovane attraversò il paese, poi il ponte e sul sentiero si diresse verso i Chiotetti. Per la verità non si sentiva molto tranquillo e la sua spavalderia scemava man mano che saliva. Egli conosceva bene la leggenda delle streghe dei Chiotetti, e a quel pensiero rallentava il passo. Si voltò verso la valle e vide in lontananza i fiochi lumi nelle stalle della sua frazione.

 

<<Una scommessa è una cosa seria>> pensò, e proseguì il cammino.

 

Ogni tanto un fremito nel bosco gli faceva accelerare i battiti del cuore. Erano solo un ramo spezzato, una foglia caduta, o il passaggio furtivo di un animale, ma il silenzio ed il buio della notte ingigantivano ogni piccolo rumore.

 

Finalmente arrivò alla muanda e individuò subito la casa da cui doveva prelevare lo sgabello. Ma con sua sorpresa trovò la porta spalancata e all’interno vide ciò che già temeva: a lume di candela un gruppo di masche brutte, vecchie e vestite di nero girava intorno ad un tavolo, mentre si buttavano l’una all’altra un bambino infagottato.

 

Allora gli venne in mente un racconto della nonna udito durante l’infanzia nel quale si diceva che se alla sera i genitori non avessero fatto il segno della croce ai figli piccoli, di notte le masche sarebbero venute a prendere i bambini e li avrebbero portati sulle montagne.

 

Terrorizzato, il giovane si dimenticò della scommessa e dello sgabello. Scappò via e in un attimo fu al Pianetto, dove rimase nascosto per diversi giorni prima di rivelare agli amici quanto gli era successo.

 

 

Notizie tratte da:

 - Usoei, Uxellos, Usseglio, Luigina Longhi Borla, Antonella Reffieuna Roch